I migranti non portano malattie. Si ammalano di povertà, emarginazione e diritti negati

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di Mario Affronti

Direttore regionale dell’Ufficio per la pastorale delle migrazioni della Conferenza episcopale siciliana

Abbiamo una delle Costituzioni più avanzate al mondo in tema di tutela e rispetto dei diritti umani. L’articolo 3 ce lo dice chiaramente: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Ed anche in tema di salute, la Costituzione prevede importanti garanzie per tutte le persone che si trovano nel nostro Paese così come stabilito dall’articolo 32 che recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti”.

Ma nella realtà non riusciamo a curare tutti i pazienti, anche se poco distanti da noi. Persone, popolazioni, intere comunità non esistono nei programmi di prevenzione e nelle politiche sociali. Sono invisibili, ma presenti, persone svantaggiate che anche nei Paesi più progrediti hanno una speranza di vita decisamente più breve e si ammalano di più rispetto ai ricchi. Tra queste anche i migranti che si ammalano di povertà, di esclusione e di difficoltà di accesso ai servizi sanitari. Sono le vittime della disuguaglianza che ha raggiunto livelli non più sopportabili.

Sono le precarie condizioni di vita e di lavoro, la disoccupazione, la mancanza di servizi igienici e di servizi sanitari e di assistenza, il grado d’istruzione, le scadenti condizioni abitative a fare ammalare queste popolazioni, non certamente le malattie etniche, infettive che così tanto ci preoccupano come Paese ospitante e che tanta parte hanno nella determinazione delle nostre politiche sanitarie nei loro confronti. I migranti si ammalano di deprivazione sociale e non per tutte quelle malattie che importerebbero dai loro Paesi. Le loro malattie sono sociali e politiche e quindi i rimedi devono essere altrettanto sociali e politici.

Per garantire l’universalismo e l’equità del diritto alla cura, sanciti dalla carta costituzionale, è necessario identificare non solo i bisogni, ma anche le persone, dimenticate e invisibili al sistema, che hanno quei bisogni.

Chi sono gli invisibili? E agli occhi di chi sono invisibili?[1]

Sono più di 50 mila in Italia le persone senza fissa dimora, italiani e stranieri, 500 mila gli immigrati senza permesso di soggiorno (20 mila circa in Sicilia), 7.080 i minori stranieri non accompagnati (2.500 in Sicilia), meno di 100 mila gli immigrati accolti in strutture d’accoglienza governative e locali, 200 mila gli immigrati in attesa di regolarizzazione. Sono stime approssimative degli italiani e stranieri presenti, ma non censiti all’anagrafe, che rischiano di essere esclusi, ad esempio dalla vaccinazione, se non si attivano dei percorsi adeguati. Un’altra parte di invisibili include rom, sinti e camminanti che vivono in campi e insediamenti informali, tollerati o spesso non autorizzati, e persone che vivono in ghetti o palazzi occupati. Migliaia e migliaia di persone socialmente fragili e spesso vulnerabili dal punto di vista sanitario. La residenza anagrafica, ad esempio, è una barriera amministrativa rilevante per l’iscrizione, e il relativo rinnovo, al Servizio sanitario nazionale. Gli invisibili complessivamente stimati in Italia sono quindi 800 mila mentre non si quanti siano in Sicilia.

Se mettessimo l’occhiale dell’equità, quindi se entrassimo in una logica secondo cui non dobbiamo offrire tutto a tutti allo stesso modo, ma dobbiamo agire con più insistenza e attenzione nei confronti delle persone che hanno maggiori bisogni, con più sensibilità nell’ambito della cosiddetta “fragilità sociale”, allora questi livelli di invisibilità riusciremmo, forse, a vederli. Daremmo a tutti pari opportunità.

La pandemia è stata un’emergenza non solo sanitaria ma anche sociale. Ha messo a nudo la scarsa fruibilità dei servizi pubblici nonché i problemi di giustizia sociale. Mi domando come si potrebbe già orientare in modo equo una politica sanitaria e sociale efficace, senza inseguire sempre e solamente l’emergenza nell’emergenza come è avvenuto durante il Covid-19?

Servirebbero tre passaggi fondamentali.

Il primo riguarda un’azione a livello organizzativo, con una sanità pubblica di prossimità (sanità samaritana come qualcuno l’ha definita) che includa un lavoro di rete, l’offerta attiva e il coinvolgimento diretto delle comunità di riferimento. Prossimità vuol dire capacità (del sistema sanitario) di andare verso i territori e le popolazioni target in termini di presenza fisica (con espressione anglosassone, si direbbe shoe-leather, letteralmente con la “suola delle scarpe”), proiettandosi oltre le mura per riuscire a raggiungere i gruppi che altrimenti non riuscirebbero ad accedere[2].

Ma vuol dire anche capacità di ripensarsi in termini di maggiore permeabilità e fruibilità. In questa cornice si inserisce la domiciliarità, anch’essa annunciata con enfasi nei piani di ridefinizione del Servizio sanitario nazionale, che, coerentemente con quanto detto, dovremmo intendere in una forma integrata con gli aspetti sociali, anche in termini di “assenza”: assenza delle mura domestiche, di relazioni, di semplici contatti. Uno degli strumenti base della domiciliarità, la telemedicina – di cui pure si riconosce la necessità di un potenziamento – non dovrebbe sostituire la medicina del contatto cercato e voluto, dello sguardo non mediato dallo schermo ma impregnato di odori, sensazioni intuite e messaggi ricevuti.

La pandemia ha unito i due estremi del sistema: gli anziani “protetti” in strutture sempre più chiuse, quasi barricate, e gli invisibili, senza dimora, di qualsiasi età, italiani e stranieri, sulla strada, senza mura, domiciliati nel nulla strutturato, presenti ma dimenticati, se non rimossi, anche dalla sanità pubblica. Gli uni e gli altri hanno bisogno di prossimità, di una domiciliarità personalizzata, non mediata, di sentirsi presenti nel sistema, nella comunità[3].

Il secondo è quello di spostare i margini della fragilità. Questo è compito di politiche di inclusione in senso ampio (per esempio, una nuova legge sulla cittadinanza, il contrasto al lavoro nero, percorsi d’accoglienza e integrazione), ma anche con una organizzazione, ad esempio, dei servizi sanitari, che consideri la parte di popolazione socialmente fragile non una eccezione ma una sfida per l’equità a favore di tutti con, ad esempio, una rete di servizi elastici e a bassa soglia.

Il terzo passaggio è convincere i politici, i decisori e i dirigenti del valore e del senso della partecipazione che non deve essere vista come un ostacolo: solo con la partecipazione delle diverse comunità in forma ordinaria si possono garantire migliori percorsi e quindi maggiori tutele, e in situazioni di emergenza è il modo più efficace e attento per riuscire a intervenire dove c’è invisibilità di persone e di bisogni. Proprio le comunità, anche quelle meno strutturate, contribuiscono a definire la salute un «bene comune», non solo in quanto bene posseduto «in comune», ma anche come prodotto che viene «costruito insieme», all’interno di un rapporto dialettico con l’istituzione sanitaria. Viene così declinata la parola partecipazione nelle attività di tutela della salute e, più specificatamente, nella lettura del bisogno e della domanda (spesso una vera e propria decodificazione) e della possibilità di un’azione concreta in particolare nei percorsi di promozione e prevenzione già in fase di definizione e programmazione.

Il nostro sistema sanitario è sofferente, lo è da anni e non solo per una carenza di risorse economiche, ma anche di scarsa sensibilità ai temi che abbiamo detto. Oltre a cambiare prospettiva dovremmo cambiare l’impostazione del sistema: dall’attesa all’iniziativa, dal centralismo al territorio, dal decisionismo alla partecipazione. In questo modo tutti, anche i più deboli, coloro che stanno ai margini dimenticati dai servizi sanitari, dalle campagne di prevenzione, e anche gli invisibili alla società possono diventare protagonisti di percorsi di tutela e di salute.

[1]Salvatore Geraci, forward #27 – INVISIBILI – 3/2022

2Baglio G, Eugeni E, Geraci S. Salute globale e prossimità: un framework per le strategie di accesso all’assistenza sanitaria da parte dei gruppi hard-to-reach. Recenti Prog Med 2019; 110: 159-64).
3Baglio G, Geraci S, Marceca M. Dal Covid-19 al PNRR. Imparare dalla pandemia…per andare oltre. In stampa. Geraci S. Diseguali al tempo del vaccino. In Italia Caritas. L’impatto di Covid-19 sulla società italiana: analisi riflessioni e approfondimenti dal mondo Caritas. Post del 16 giugno 2021 http://www.caritas.it/home_page/atttivita_00008770_In_Italia.html


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