Separati all’imbarco, la storia del bimbo arrivato da solo. Non può vivere con i genitori perché il papà è senza lavoro

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Fine ottobre 2020, sono circa le 23.00 e il buio della notte è stemperato dalla luna piena. Un gruppo di uomini, donne e bambini viene condotto da un piccolo villaggio verso la costa tunisina di Sfax per imbarcarsi. Camminano per circa un’ora nelle campagne. Tra loro ci sono Didier ed Amina (nome di fantasia quello di lei), giovane coppia trentenne, con Jean (nome di fantasia), il figlio di poco più di un anno, originari della Costa D’Avorio. Arrivano sfiniti, anche se si alternano a portare in braccio il bambino.

“Prima salgono i piccoli e poi gli adulti”, dicono gli scafisti. La coppia è, quindi, costretta a consegnare il figlio ad una ragazza sedicenne che avevano conosciuta nel casolare dove erano stati rinchiusi da due settimane, in attesa della partenza. Qui fecero amicizia, si fidarono l’uno dell’altro, si scambiarono i numeri di telefono e si promisero di aiutarsi reciprocamente.

Salirono su un barchino per raggiungere al largo una barca più grande, quella che doveva attraversare il Mediterraneo col carico umano. Il mare era calmo e tutto faceva sperare bene.

Ma mentre il barchino tornava indietro per prendere gli altri passeggeri, sulla spiaggia scoppiava il caos. Improvvisamente arrivò la polizia che pattugliava la costa, sgommando su quattro pick-up e sparando per aria. Ci fu il fuggi fuggi per evitare di essere arrestati e anche perché nessuno si sarebbe più potuto imbarcare.

La barca con la ragazza ed il bambino fece appena in tempo a partire, ma Didier ed Amina rimasero a terra, fuggirono tra pianti e tanta disperazione. Avevano perso il bambino ed i soldi racimolati in una vita per pagare quel maledetto viaggio. Sapevano che non potevano più riprovarci perché non avevano altri mezzi economici e dovevano anche saldare un debito contratto per pagare gli scafisti. Pochi mesi prima era morto il gemellino di Jean per una grave malattia e quello era l’unico figlio rimastogli per cui il dolore era ancora più straziante. Anche perché pensavano che avrebbe potuto finire nelle mani di trafficanti senza scrupoli, come avevano visto più volte succedere in Africa.

La depressione si impadronì di loro e furono tirati fuori dal buco nero da diversi incontri online tenuti da Palermo dal centro Penc (si occupa della cura psicologica di pazienti stranieri) diretto dall’etnoantropologa Maria Chiara Monti.

Dopo due giorni di viaggio, lo sbarco a Lampedusa. Un’attivista di Save The Children notò la ragazza col bambino in braccio e le chiese se fosse suo figlio. Lei rispose di no, che le era stato affidato da una coppia che non era riuscita a imbarcarsi. Si fece dare dalla ragazza il numero di telefono dei genitori e con l’aiuto di un mediatore li chiamò e disse loro che Jean era arrivato sano e salvo in Italia.

Il bambino, che ha compiuto tre anni lo scorso 16 luglio, fu messo in quarantena in una comunità per minori, dove c’erano però anche ragazzi quindicenni e diciassettenni. Da lì, terminato il periodo di isolamento, venne portato in un’altra comunità per soli bambini e da qui successivamente, a dicembre 2020, a Palermo, dove gli venne nominata una tutrice, Simona Castellucci, che si attivò subito per fare una video chiamata con i genitori. Fece vedere loro il bambino e, con l’aiuto di un mediatore culturale, li rassicurò dicendo che stava bene, che non sarebbe stato dato in adozione e che avrebbe avviato le procedure di ricongiungimento familiare. I genitori si tranquillizzarono un po’, piangevano e dalla commozione non riuscirono quasi a parlare. “A questo punto iniziò – con l’aiuto del Tribunale dei minorenni – una lunga battaglia burocratica, con in mezzo anche le due ambasciate, per far arrivare legalmente i genitori in Italia. E dopo circa un anno e mezzo, esattamente il 2 maggio di quest’anno, con un permesso dell’ambasciata italiana a Tunisi e con un volo di linea, Didier ed Amina sbarcarono all’aeroporto di Palermo.

La coppia aveva solo il passaporto e nient’altro. E adesso sono ancora in corso le procedure per fargli avere un permesso di soggiorno. L’associazione Rotary International Francesca Morvillo, presieduta da Giancarlo Grassi, si fece carico della prima accoglienza mettendogli a disposizione vitto, alloggio e vestiti sino allo scorso mese di settembre. Ora sono ospitati in un appartamento confiscato alla mafia, assieme ad altri migranti, gestito dall’associazione di Sana Pianta, presieduta da Valeria Antinoro, la presidente del Solemar club. E il Rotary continua a dare una mano con la spesa.

Il 6 maggio scorso, dopo quattro giorni dal loro arrivo, la tutrice organizzò il primo incontro in comunità tra i genitori ed il piccolo Jean. “Il bambino li riconosceva a stento – dice la Castellucci – si rinchiudeva in se stesso, si teneva a distanza, vicino alle educatrici con le quali aveva familiarizzato, ma alla fine dell’incontro si avvicinò al papà e si abbracciarono”. E per i genitori fu un momento di gioia e delusione nello stesso tempo. Tra l’altro c’erano anche problemi legati alla lingua, che persistono ancora adesso, perché Jean aveva imparato quella italiana e non ricordava più quella francese parlata dai genitori. Nel frattempo il bambino si è abituato alla vita in comunità e va anche alla scuola dell’infanzia.

“I genitori, su disposizione del Tribunale, sino ad ora hanno potuto incontrarlo due volte la settimana – dice la tutrice – ed è bello vedere come adesso sono felici insieme perché il bambino li riconosce come papà e mamma, gioca volentieri con loro, corre e si butta tra le loro braccia ed ogni volta che si vedono è sempre una festa. Ed è bello anche aver visto tornare il sorriso sul loro volto”.

E intanto ieri si è tenuta l’udienza in Tribunale sul processo di ricongiungimento. Ci si orienta per un graduale processo di avvicinamento che consenta ai genitori di poter vedere il figlio quando vogliono e più in là farlo dormire qualche sera con loro.

Ma resta l’ultimo ostacolo, quello di un lavoro fisso e retribuito regolarmente per il padre, senza il quale non si può avere il benessere della famiglia e del bambino. Didier è consapevole di essere ad un passo della sua felicità e lancia un appello: “Qualcuno mi dia un lavoro onesto – dice – senza il quale non possiamo avere nostro figlio. So lavorare in agricoltura, fare il giardiniere e posso fare qualunque altro lavoro manuale. Ora non può essere la povertà a dividerci ancora. Lo spero dal fondo del cuore”.

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